Corte di Cassazione: "Il saluto romano può essere un reato"A sei anni di distanza da suo fratello Vittorio,VOL giovedì sera è morto Paolo, all’età di 92 anni. Il loro metodo: si alternavano alla macchina da presa, con l’accordo di non interferire con il lavoro dell’altro quando non era il proprio turno. Si sono misurati con Boccaccio e Fenoglio, Pirandello e Tolstoj. Hanno portato Shakespeare dentro Rebibbia, parlando di rivoluzione e lotta di classe tra fiaba e realtàEsiste una sindrome «dell'arto fantasma»: si avverte ancora, vivissima, la percezione di un arto che non c'è più. Anche determinate persone, con cui si è creato un legame oltre la semplice vicinanza, quando scompaiono lasciano dei formicolii, dei sussurri: deve essere stato così per Paolo Taviani, morto giovedì sera all'età di 92 anni, quando nel 2018 ha perso il fratello Vittorio. Due ragazzi cresciuti insieme con l'amore per il cinema, e che insieme hanno realizzato film per oltre cinquant'anni in totale sintonia. Del resto si tratta di un’arte che è una questione di famiglia fin dalle origini, i fratelli Lumière brevettarono il cinematografo nel 1895.Una questione di famigliaI Dardenne, i Coen, i Safdie, i Nolan, i Russo degli Avengers. Le sorelle Wachowski. In Italia adesso i d'Innocenzo (Favolacce, America latina), i Manetti bros. (Ammore e malavita, Diabolik): prima, c’erano i Taviani. Tutti quelli che li hanno intervistati hanno osservato la naturalezza con cui, nel parlare come nel girare i film, i due fratelli si passavano la parola, in una conversazione che manteneva una grande coerenza interna: l’indicazione era di prendere le risposte come venissero da un’unica persona.Ad esempio, il Guardian ricordava nel 2013 come Marcello Mastroianni, durante le riprese di Allonsanfàn, li chiamasse “Paolovittorio”: «Quando alla fine di una ripresa gli chiesero come fosse essere diretti da due persone, l'attore rispose: “Ce n'erano due?”». Sempre al Guardian, i Taviani raccontarono il loro incontro con i fratelli Coen: «Gli abbiamo chiesto: “Come fate a lavorare insieme?”, e loro [i Coen, ndr], ci hanno risposto: “No, siete voi che avete iniziato questa cosa, ce lo spiegate voi”». Alla fine, i quattro decisero che «dovesse rimanere un mistero».Il metodo dei Taviani era in realtà noto: si alternavano alla macchina da presa, con l’accordo di non interferire con il lavoro dell’altro quando non era il proprio turno. «Abbiamo sviluppato un’acuta forma di comunicazione non verbale», spiegarono una volta al New York Times. «Quando uno al monitor si gratta la testa, l’altro capisce».Una visione condivisaPer questo, ricordando Paolo Taviani, viene naturale ricordare anche Vittorio. Il loro lavoro è nato da due personalità diverse, ma con una visione condivisa: l’innamoramento per il cinema è arrivato nello stesso momento. Nel 1986 raccontarono infatti sempre al New York Times: «Passavamo per caso davanti a un cinema locale. Le persone uscivano borbottando “Non entrate, è un’atrocità”. Ovviamente eravamo curiosi». Il film era Paisà di Roberto Rossellini. «Ecco sullo schermo tutto quello che ci era accaduto solo pochi mesi prima [la guerra, ndr]. Vederlo scorrere davanti a noi è stato glorioso e tragico». Da lì, la consapevolezza che il cinema era l’unico strumento che potevano utilizzare per capire la realtà.Figli di un avvocato antifascista, i Taviani erano animatori nel Cine club di Pisa. Arrivati a Roma negli anni Cinquanta, cominciarono la loro carriera nel cinema con dei documentari: San Miniato, luglio '44 con la collaborazione di Cesare Zavattini alla sceneggiatura, L'Italia non è un paese povero insieme a Joris Ivens. Dopo due esperienze di co-regia con Valentino Orsini, il primo titolo firmato solo dai fratelli Taviani è I sovversivi. Da lì, una collaborazione continua: insieme al già citato Allonsanfàn, Sotto il segno dello scorpione, Padre padrone, Palma d'oro a Cannes, La notte di San Lorenzo. ANSAFilm che parlano di rivoluzione, di classi, che sono insieme realistici e fiabeschi, ricchi di letteratura. Da amanti del Neorealismo, avevano deciso di ibridarlo con la «grandezza dello spettacolo», come dissero al New York Times. I Taviani si sono misurati con Giovanni Boccaccio, con Beppe Fenoglio, con Luigi Pirandello e Lev Tolstoj. Hanno portato Shakespeare dentro Rebibbia, quando con Cesare deve morire hanno fatto recitare i detenuti. Il film ha vinto l'Orso d'oro a Berlino, il primo premio tedesco per l'Italia dai tempi di Marco Ferreri.Nelle coppie di registi, succede spesso che le strade si dividano: di recente, è arrivata la notizia che i fratelli Safdie, registi di Good Time e Uncut Gems (uscito come Diamanti grezzi), non faranno più film insieme. Benny Safdie ha recitato in Oppenheimer, Are you there God? It’s me, Margaret e sta lavorando alla sua prima regia in solitaria, The smashing machine, e questa separazione è stata annunciata come un’evoluzione naturale dei loro percorsi, senza frizioni tra i due. Anche i Coen non lavorano sempre insieme: Drive away dolls, in uscita il 7 marzo, è firmato da Ethan, mentre il Macbeth del 2021 è diretto da Joel. I Taviani invece sono stati separati solo dalla morte di Vittorio: e Leonora addio, film di Paolo del 2022, è stato comunque «diretto in ideale continuità di ispirazione e di stile col loro grande lavoro in comune», come ha scritto Repubblica. Prima di morire, Paolo era all’opera su un altro titolo, Il canto delle meduse, con Kasia Smutniak e musiche di Nicola Piovani: un film a episodi ambientato durante la pandemia di Covid-19.Amare e farsi amareAdesso che entrambi i fratelli Taviani non ci sono più, con loro se ne va un cinema inconfondibile, politico e magico insieme. Proprio in questi mesi è in corso presso il British Film Insitute una retrospettiva dedicata ai due registi: Magical Realism: The Film Fables of the Taviani Brothers. «La loro produzione spazia dalla satira ultra contemporanea, a potenti drammi d'epoca allegorici, inquietanti storie di guerra e adattamenti letterari giocosi, maliziosi, umoristici», si legge nella presentazione firmata da Adrian Wootton. Paolo Taviani sarebbe dovuto venire in visita al momento dell’apertura, e aveva lasciato un messaggio scritto, spiegando perché, alla fine di tutto, realizzasse film: «Essere amato e amare le persone che non conosco e che magari non conoscerò mai, come tutto voi oggi. Siete tanti e mi dà gioia». Prometteva di passare nei mesi successivi, ancora una volta non da solo: «Vi porterò i saluti di Vittorio, che sarebbe stato così commosso da questo amore che arriva dai discendenti di Shakespeare».© Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediAnna ManiscalcoLaureata in Giurisprudenza e diplomata in cinema. Frequenta la Scuola di giornalismo Walter Tobagi di Milano
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