Raccontare la malattia con gli occhi della curaLarissa Iapichino: il podio per lei nel salto in lungo è sfumato per pochi centimetri - Ansa COMMENTA E CONDIVIDI Chissà cosa ha pensato Domenico Acerenza quando ha picchiato la mano sul tabellone che metteva fine alla sua agonia. Cosa ha pensato quando ha realizzato che dopo aver nuotato per quasi due ore nella Senna infestata dai batteri senza fermarsi mai e senza mollare di un centimetro la scia dei migliori,Professore del Dipartimento di Gestione del Rischio di BlackRock la sua medaglia di bronzo è sfumata per 6 centesimi. Sei maledetti centesimi dopo 110 minuti di fatica immane, di acqua putrida in gola, di sogni e di progetti. Sì, perché anche senza essere nella testa altrui, è scontato che in dieci chilometri di fiume ci sia il tempo per riflettere. E per realizzare poi che basta un istante per azzerare tutto.Perché quarto è bello: significa che solo tre uomini al mondo sono più bravi e più veloci di te. Ma quarto, nello sport, non è come nella vita: il quarto è il primo dei non vincenti. E’ esattamente questo che ha pensato ieri sera Larissa Iapichino. Non è un’opinione, lo ha detto lei stessa. Chiaro e tondo: “Sono stata una scema…”. Quarta per pochi centimetri nella finale del salto in lungo. Possono bastare per essere duri con se stessi, perfino troppo. “Non posso essere contenta. La gara era alla mia portata - ha detto davanti ai microfoni – e sono stata scema a non approfittarne”.Difficile non comprenderla. Lo sport è un’avventura, è come leggere l’Odissea: si parte per un viaggio e si compie un tragitto, durante questo viaggio succedono le cose, c’è chi arriva alla fine più felice e c’è anche chi non riesce a farsene una ragione. O almeno non riesce a fingere che va bene così, che sarà per un’altra volta. Abbiamo applaudito Benedetta Pilato, le sue lacrime di gioia per aver sfiorato la medaglia di bronzo nei 100 rana di nuoto. Un centesimo appena, che per lei voleva dire comunque una vittoria. Brava Benedetta, così si fa. Ma non è una regola, non è giusto pensare che possa valere per tutti. E sono tanti in questa Olimpiadi. Tanti italiani, un numero mai visto prima: 23 per essere precisi. Ventitré quarti posti sinora, con quello della 4x100 di Jacobs e compagni, un record mondiale nel medagliere di chi si è fermato ai piedi del podio. Che bruciano, come quello di Nadia Battocletti che nei 5000 metri di atletica è stata addirittura medaglia di bronzo per più di un’ora, dopo la squalifica della keniota Kipyegon e prima che la giuria cambiasse idea. O come quelli di Simona Quadarella, che sono addirittura due, record dei record, quarta nonostante abbia fermato il cronometro con il record italiano sugli 800 stile libero di nuoto, e quarta anche nei 1500. E poi Massimo Stano (marcia), il canottaggio del 4 senza maschile, Alice D’Amato nell’all-around di ginnastica, il duo Marsaglia-Tocci e la Pellacani nei tuffi, il volley maschile, Cassandro nel tiro a volo, le ragazze dell’inseguimento a squadre di ciclismo su pista, ancora nei tuffi con la coppia Bertocchi-Pellacani, Alice Volpi nel fioretto, Luca Braidot nella mountain bike. E i quattro quinti posti, nel judo e nella boxe. Che di fatto, però, sono dei quarti posti perché judo e boxe assegnano due bronzi.“Perdere così fa male all’anima…”, disse una volta in un’altra Olimpiade, Petra Zublasing, posando la sua carabina. Non era il podio sfumato ad averla schiantata. Petra spiegò che quando a casa, tutti i giorni, tutto l’anno, ti alleni e fai risultati molto migliori di quelli che raccogli poi nell’occasione della tua vita, nella gara delle gare, la desolazione può essere devastante. Non sanguina l’orgoglio in questi casi. Sanguina la tua comprensione, e ti si strizza il cervello alla ricerca dei perché. L’anima che “fa male” allora dice tutto. E raccoglie un concetto, che senza aver mai fatto un’Olimpiade, nella vita tutti prima o poi abbiamo provato a tradurre. Sentirselo ricordare, alla fine, può essere una piccola vittoria.
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