Berlusconi "non può alzarsi e camminare", le parole di ZangrilloQuesto è l’episodio 114 di Areale,investimenti la newsletter su clima e ambiente di Domani a cura di Ferdinando Cotugno. Questa settimana parliamo di tempo esponenziale, del più lungo ciclone di sempre, di una promessa che l’Italia non ha mantenuto, di allevamenti intensivi di polpi e di orti. Clicca qui per iscriverti alla newsletter in arrivo ogni sabato mattina. In questo lungo editoriale per il New York Times, Ezra Klein non parla di clima, parla invece di intelligenza artificiale e del potenziale che ha di cambiare, e non per forza in meglio, le nostre vite, la nostra società, il futuro. Però in qualche modo ci riguarda lo stesso. Scrive: «Non c’è illusione umana più profonda dell’aspettativa che il domani sarà come l’oggi. È uno strumento conoscitivo potente, perché è quasi sempre corretto». «Quasi», appunto, perché poi invece a volte si sbaglia, e domani è diverso da oggi, e lo è sempre più spesso (ricordi i primi due mesi del 2020? Ecco, quella cosa lì) e noi non siamo pronti ad affrontare una situazione in cui domani non è affatto come oggi. Klein parla di «tempo esponenziale», quando vedi le cose succedere (i disastri, o i contagi), e come in un incubo sei incapace di muoverti. Porta questa sensazione individuale su scala collettiva e hai una società immobile, senza tempi di reazione adeguati. Oggi siamo di fronte al «compito impossibile di accelerare le policy e il cambiamento sociale» al ritmo delle cose che succedono. Le deliberazioni umane, scrive Klein, richiedono un ritmo e un tempo. E oggi però non ce l’abbiamo più, quel tempo, e forse la nostra sfida primaria è saper cambiare i tempi e i modi in cui si indirizza il cambiamento e si governa il tempo nella società. Perché gli eventi stanno correndo più veloci di noi. Questo è il numero 114 della newsletter Areale, e oggi iniziamo parlando di noi. Ho bisogno di te: inchiesta sostenuta dai lettori E partiamo proprio da qui, dal tempo esponenziale e come processarlo. Partiamo dall’atto complesso di raccontare e documentare la trasformazione della società necessaria ad affrontare la crisi climatica. Sappiamo come deve essere, questa trasformazione: rapida e radicale. Conosciamo gli ostacoli e gli interessi avversi: politici, economici, sociali, industriali. Il muro dello status quo. Ci sono tanti pezzi che devono funzionare insieme, perché le cose vadano bene. Uno di questi pezzi è l’informazione, io, tu, questo posto, per esempio, questo giornale, questa newsletter, questo lavoro (114 edizioni, un viaggio lunghissimo, mi sembra incredibile, una cosa irreale, a guardarlo in prospettiva, anche arrivare a 10 mi sarebbe sembrato incredibile e invece). Ecco, per farla breve, ci potrebbe servire una mano. Sono partite le nuove inchieste di Domani sostenute dai lettori. Sono tre: una è sull’intelligenza artificiale, una è sul fare figli, la terza è la nostra, sulla transizione ecologica, la transizione costruita dal basso, dalle comunità, dalle organizzazioni, dalle reti, dai sindacati, dagli attivisti. Il senso di questa richiesta è: aiutami a raccogliere la speranza che c’è e a raccontare di clima con Domani, e con Areale. Per unire il senso di realtà – perché gli indizi del collasso sono troppi – e senso di possibilità, perché la finestra per agire è ancora aperta. Intendiamoci: Areale sarà sempre gratuita, continua il suo viaggio, con le edizioni settimanali e quelle speciali giornaliere durante i vertici internazionali e ogni volta che serve. Arriva ogni sabato mattina, alle 11.30, inesorabile e lunghetta. Però la sfida che mi sono messo in testa di cercare la speranza richiede studio, tempo e viaggi. Ed è per questo che abbiamo deciso di far partire questa raccolta fondi: ogni contributo conta, può dare una mano, una spinta, e (anche) rafforzare questa comunità. Ogni donazione, grande, piccola, media, sarà accolta con infinita gratitudine, innanzitutto da parte mia, e poi di tutta la comunità di Domani. Se lo fai, ovviamente, fammi sapere. Per saperne di più, il link è questo. L’idea è raccontare azioni ecologiche reali e scalabili, che possano avere un impatto vasto sulla società, sul paese, sul futuro. Parleremo di energia, cibo, economia circolare, agricoltura, mobilità, tecnologia, politica. Non mi interessano tanto le secessioni dalla realtà, quanto le sfide alla realtà, che vengano dai movimenti per la giustizia climatica o dai vertici internazionali (e quest’anno c’è tanto da seguire, i negoziati sulla plastica, quelli intermedi di Bonn su loss & damage, la Cop28). «Democracy dies in darkness», la democrazia muore al buio, si diceva durante la presidenza Trump. Vale lo stesso per la transizione: senza lo sguardo di un’informazione libera, tutto quello che resta è il greenwashing. Insomma, la richiesta di sostegno a voi, lettrici e lettori, è mandarmi a vedere quante possibilità ci sono rimaste di salvare il futuro. Ogni aiuto, ogni euro, sarà utile per farlo. (E ovviamente anche ogni suggerimento di storie da seguire e raccontare). Per domande o altro, in fondo ad Areale c’è sempre l’apposita mail. Il più lungo ciclone di sempre APN Lontano dalle cronache e dall’attenzione europee, l’Africa è stata colpita da quello che potrebbe essere confermato come il più potente e lungo ciclone della storia. Centinaia di morti e danni ancora da calcolare, sopratutto per Mozambico e Malawi, che mostrano quanto poco la comunità internazionale sia attrezzata a mettere i paesi più vulnerabili in condizione di resistere contro gli eventi estremi causati dal riscaldamento globale. Il ciclone Freddy ha calmato la propria furia, dopo 34 giorni consecutivi di devastazione, proprio mentre il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in Kenya parlava della sfida comune di Africa e Unione europea contro i cambiamenti climatici. Teoria e pratica del collasso, lungo i 2mila chilometri che separano Nairobi da Blantyre, la città del Malawi più colpita da Freddy. Secondo la World meteorological organization, Freddy è la tempesta più forte che abbia mai colpito l’emisfero meridionale ed è il più lungo ciclone di sempre, 34 giorni, contro il precedente record di 31, stabilito trent’anni fa dal tifone/uragano John. Freddy ha colpito l’Africa orientale per due volte diverse, ha toccato terra a febbraio, ha devastato, è tornato verso l’oceano, si è ri-alimentato sulle acque surriscaldate dalla crisi climatica del canale di Mozambico e poi è tornato indietro, rientrando dal porto di Quelimane e ha completato l’opera. Un doppio schiaffo rarissimo per un ciclone. In poche settimane è caduta la pioggia di un anno. Per ora si contano quasi 200 morti, la maggior parte segnalati a Blantyre, seconda città del Malawi, ma è un bilancio più che provvisorio, soprattutto perché diverse zone del Mozambico sono rimaste a lungo isolate da frane e alluvioni. Il Malawi è un caso di studio per le policrisi, al momento, visto che sta affrontando anche la peggior epidemia di colera della sua storia recente, un focolaio da quasi 30mila casi e 900 morti, secondo i dati forniti dalla Croce rossa internazionale. È su questa fragilità che si è abbattuto Freddy, difficile pensare che la situazione sanitaria non peggiori dopo 34 giorni di ciclone. Per Malawi e Mozambico è il secondo anno consecutivo segnato da un evento estremo su vasta scala, dopo il passaggio disastroso nel 2022 della tempesta Ana (che aveva fatto danni enormi anche in Madagascar). Freddy è stato definito dalla World meteorological organization «tempesta notevole», un eufemismo per definirne la stranezza dal punto di vista meteorologico: si è formata in Australia meridionale a febbraio, ha ricevuto il suo nome dall’Australian bureau of Meteorology. Da lì ha attraversato tutto l’Oceano Indiano, percorrendo 8mila chilometri, fino ad arrivare in Africa orientale. Solo quattro tempeste nella storia, da quando ne teniamo traccia in modo scientifico, hanno attraversato tutto l’Oceano indiano da un capo all’altro. L’energia accumulata ne fa la tempesta più potente di sempre, Freddy ha toccato 86 sulla scala Ace, Accumulated cyclone energy. «Molto raro», hanno detto i climatologi. Per l’attribuzione alla crisi climatica servono di solito mesi, ma l’Ipcc – l’organismo scientifico dell’Onu – ha ribadito che tempeste più lunghe, potenti e frequenti sono da correlare in modo diretto con la crisi climatica. La tempesta «freak» Freddy arriva a pochi mesi dalla creazione di un fondo danni e perdite alla Cop27 di Sharm el Sheikh, in Egitto, istituito proprio per risarcire paesi come Malawi e Mozambico dei danni di eventi del genere. Il problema è che tra istituzione formale e attivazione del fondo passeranno anni: due anni secondo la roadmap ufficiale, ma è plausibile che saranno anche di più. Intanto i paesi si stanno già attivando: il Malawi è in un’alleanza (con Nepal, Bangladesh, Senegal, Giamaica, Trinidad e Tobago, Tonga e Vanuatu) per istituire strutture specifiche per ricevere e attivare questi fondi, una volta che saranno disponibili. Insomma, i paesi sono già in attesa, e dal fondo loss and damage sarà sempre più difficile tornare indietro (ci proveranno). Il 27 marzo a Luxor, in Egitto, si riunisce intanto per la prima volta la commissione di 24 esperti che deve iniziare a scrivere le regole per il fondo loss and damage. Ci sono voluti mesi di negoziati solo per decidere i nomi e i paesi rappresentati. Intanto il Fondo monetario internazionale ha attivato i primi cinque prestiti legati direttamente all’adattamento climatico previsti dal Resilience and sustainability trust (Rst), istituito l’anno scorso per ridistribuire in modo più efficiente gli aiuti per la crisi climatica. È una risposta alle critiche che vedono il Fondo monetario internazionale e Banca mondiale istituzioni sempre meno adatte a navigare un contesto di crisi climatica. I primi paesi che riceveranno questi prestiti sono Bangladesh, Costa Rica, Barbados, Ruanda e Giamaica. Il disaccordo di Parigi Aggiornamento su una puntata precedente: la riunione Ocse non è riuscita a trovare un accordo per allineare le agenzie di credito all’esportazione, come l’italiana SACE, agli obiettivi dell’accordo di Parigi. La riunione, che si è (non troppo) ironicamente tenuta proprio a Parigi, si è conclusa con un nulla di fatto. Altri mesi persi, se ne riparla più avanti. È un problema, perché nessuna altra tipologia di istituzione finanziaria pubblica sostiene l’estrazione di combustibili fossili quanto queste agenzie assicurative pubbliche, poco note, molto importanti, che più o meno nell’oscurità di cui si diceva sopra tra il 2019 e il 2022 hanno finanziato carbone, petrolio e gas con 33,5 miliardi di dollari in media all’anno, sette volte più di quanto abbiano sostenuto le rinnovabili, 4,7 miliardi di dollari in media all’anno. Da un punto di vista pratico, l’obiettivo era mettersi d’accordo su un sistema di incentivi a progetti climate friendly chiamato Climate change sector understanding, uno schema di priorità per invertire questa sproporzione per cui per ogni euro pubblico messo sull’energia pulita ne vengono messi sette su quella fossile. A oggi ci sono poche cose più importanti di interrompere il flusso di finanza pubblica verso i nuovi progetti oil&gas, perché la verità è che le aziende energetiche continueranno a estrarre finché potranno, e il «finché potranno» dipende anche da questi sussidi. Nel 2021, alla Cop26 di Glasgow, la metà dei paesi dell’Ocse aveva firmato una dichiarazione sul fatto che entro la fine del 2022 avrebbero smesso di finanziare nuovi progetti di estrazione fuori dai propri confini. Era una promessa e non un impegno vincolante, Oil change international ha fatto un’analisi dettagliata su chi l’ha mantenuta e chi no, perché non tutti i paesi si comportano allo stesso modo e dobbiamo riconoscerlo e sottolinearlo. E così viene fuori che quella dichiarazione è riuscita in effetti (bene!) a togliere al settore oil&gas 5,7 miliardi di dollari di fondi pubblici, grazie al fatto che Canada, Regno Unito, Francia, Finlandia, Svezia, Danimarca, Nuova Zelanda, più la Banca europea per lo sviluppo, hanno tenuto fede a quell’impegno. Il rapporto però si intitola Promise breakers, perché a noi interessano i paesi che hanno rotto quella promessa, Germania, Italia e Stati Uniti, e che hanno lasciato intatto il loro flusso da 13,7 miliardi di dollari verso l’apocalisse. Ci sono informazioni importanti sul nostro paese e su cosa significherebbe se Meloni tenesse fede alla parola data da Draghi a Glasgow. L’Italia è, per esempio, tra i più grandi finanziatori di progetti fossili in Europa proprio grazie a SACE. A Glasgow abbiamo promesso che avremmo smesso a fine 2022, siamo a marzo 2023 e niente è cambiato. Anzi. A fine anno il governo italiano aveva cercato in ogni modo di indebolire una dichiarazione dei ministri europei su questo tema. «Uno sviluppo che non ispira fiducia nei confronti dell’autenticità dell’intenzione dell’Italia nel portare avanti la promessa di Glasgow», scrivono gli autori del report di Oil change international, e complimenti per l’eufemismo, l’Italia non ha nessuna intenzione di farlo, anche alla luce dell’idea meloniana-descalziana di fare di questo paese un hub del gas (gas che, ricordiamolo, è sia l’energia che ci ha quasi mandato in bancarotta l’anno scorso sia l’energia che contribuisce al disastro climatico). I progetti in valutazione di SACE valgono da soli tre volte e mezzo le emissioni di gas serra di tutta l’Italia. Non benissimo, insomma. Distopia per cefalopodi AP Photo/Stocktrek Images Nel porto Las Palmas, sull’isola di Gran Canaria, potrebbe inaugurarsi a breve una nuova distopia: il primo allevamento intensivo di polpi al mondo. Un milione di esemplari, una produzione di 3mila tonnellate all’anno. Se hai voglia di conoscere meglio cosa succede dentro la coscienza di un polpo ti consiglio Altre menti di Peter Godfrey-Smith, uno di quei libri così densi e pieni di prospettive che diventano nuove infrastrutture mentali, modi di vedere le cose, sé e il mondo. In ogni caso, in Nueva Pescanova, la società che aprirà l’allevamento intensivo di polpi, non devono aver letto il libro. C’è un report utile per approfondire cosa significa un allevamento intensivo di polpi, a cura di Compassion in world farming e eurogroup for animals. I polpi saranno macellati con miscela di ghiaccio: «Un metodo crudele, brutale e deplorevole», che causa sofferenza, paura, dolore e una morte lenta (che sì, lo so, è in fondo solo un’altra definizione di allevamento intensivo). Gli animali (intelligenti come gatti) sono chiusi in vasche sovraffollate, dove la loro natura solitaria viene violata e si verificano casi di cannibalismo. Non causalmente, nei documenti di Nueva Pescanova si prevede un tasso di mortalità nelle vasche del 15 per cento. Si troveranno anche in un ambiente illuminato notte e giorno, una tortura per una specie che detesta la luce e vive di anfratti. Vengono nutriti con farina e olio di pesce. Insomma, qui siamo in una nuova frontiera, anche perché per decenni era stato ritenuto impossibile allevare polpi, poi Nueva Pescanova ha sviluppato un metodo e ora siamo in un territorio non mappato, dove non esistono regole. L’orto e noi ASSOCIATED PRESS «Magari fare un orto è il modo empirico per andare a scuola dal terreno e da chi ci vive dentro. O forse, solo, fare un orto è fare; non è la risposta a delle domande, è lo stato che precede, e rende inutile, ogni domanda. È gesto e reazione della vita, complessità senza fraintendimento e mistificazione. Un seme messo a terra, comprensione del limite, attesa». Ho conosciuto Barbara Bernardini grazie a Braccia rubate, una newsletter bellissima. Ogni tanto mi scrive delle mail. Ogni tanto io le scrivo delle mail. Barbara sa tantissime cose che non so, e tante di queste cose che non so sono ora in un libro bello quanto la sua newsletter, appena uscito per Nottetempo. Dall’orto al mondo. Piccolo manuale di resistenza ecologica. È un diario del suo orto, storia di un’agricoltura per fazzoletti di terra nell’agro pontino, ma è anche un viaggio dentro uno stato della mente che è disperatamente necessario all’ecologia: l’umiltà. L’umiltà nei confronti del terreno e della vita che contiene che a volte è conoscenza, a volte è resa, a volte è illuminazione, a volte è capire e altre è non capire. Barbara racconta un anno di orto e di vita, il lento processo di imparare l’ancestrale che da qualche parte alberga dentro di noi, come un segnale sonar debolissimo, è la storia di una persona che apprende su scala individuale quello che abbiamo dimenticato su scala collettiva. Terra, frutta, ortaggi, verdure, foglie, fiori, piante, lombrichi, uccelli, suolo, clima, mondo. È un libro strano, sbilenco e prezioso, una conversazione che non mi aspettavo di avere, un saggio che non somiglia a niente, scritto come Barbara coltiva: prevalentemente a mani nude. Per questa settimana è tutto. La settimana prossima sono a Roma, per una presentazione di Primavera ambientale, il 22 marzo, Casetta Rossa, Garbatella (poi fermo le presentazioni e mi riposo un po’). La sera successiva partecipo invece a Milano all’Assemblea dei giornalisti di Extinction Rebellion. Se hai voglia di scrivermi, puoi farlo a [email protected] (anche per usare questa newsletter come una bacheca, se vuoi segnalare incontri, eventi e cose importanti). Se vuoi scrivere a Domani, invece, [email protected]. Buon sabato, è quasi primavera, sorridi, stai bene, riposati, fai attenzione, non perderti. Ferdinando Cotugno © Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediFerdinando Cotugno Giornalista. Napoletano, come talvolta capita, vive a Milano, per ora. Si occupa di clima, ambiente, ecologia, foreste. Per Domani cura la newsletter Areale, ha un podcast sui boschi italiani, Ecotoni, sullo stesso argomento ha pubblicato il libro Italian Wood (Mondadori, 2020). È inoltre autore di Primavera ambientale. L’ultima rivoluzione per salvare la vita umana sulla Terra (Il Margine, 2022).
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