Strage all'asilo nido in Thailandia, tra le vittime anche una maestra incinta all'ottavo meseNon lo faccio apposta,trading a breve termine a trovare gli impiccati. Mi viene naturale, o meglio, mi veniva. Ho smesso di scoprirli intorno ai dieci anni perché crescendo perdiamo il dono di trovare la morte Poi, a un certo punto, è arrivato il silenzio. I miei sogni si prendevano gioco di me: non sentivo più la morte, stavo crescendo e lo facevo nel momento sbagliato, perché intorno tutto esplodeva Questo racconto si trova sull’ultimo numero di FINZIONI – il mensile culturale di Domani. Per leggerlo abbonati a questo link o compra una copia in edicola Nella mia famiglia ognuno ha la sua specialità: mia madre è bravissima con le medicine, sa sempre dove rimediare tutto per curarci, mia sorella riesce a diventare molto bella e a trasformarsi in una divinità egizia, io trovo gli impiccati. Mio padre non l’ho messo, perché purtroppo la sua specialità è quella di essere morto da un pezzo. Non lo faccio apposta, a trovare gli impiccati. Mi viene naturale, o meglio, mi veniva. Ho smesso di scoprirli intorno ai dieci anni perché crescendo perdiamo il dono di trovare la morte. Il funerale Eravamo in campagna – un paesino in provincia di Piacenza indebolito dalla fatalità della dimenticanza: se ne andavano tutti e le case lacrimavano solitudine – per il funerale di una delle zie secolari di mio padre. La bara era aperta, si usava così, e mio padre, terrorizzato da quel coperchio sollevato su una dimensione a cui era già predestinato, voleva proteggere almeno me dal graffio della morte. «Vai a giocare fuori», mi deve aver detto, e io così ho fatto portandomi dietro l’altro essere umano dispensato dalla veglia. Non era un bambino di sei anni come me, ma il fratello di mio padre, lo “zio matto”, cresciuto nel corpo ma con la testa guasta, inadatto al mondo degli adulti per la scompostezza delle sue reazioni che creavano disagio e freddo attorno. Le passeggiate con mio zio erano piacevoli. Mi prendeva la mano, esploravamo case in rovina e orti abbandonati: ogni tanto tornavamo con qualche pomodoro indomito che aveva deciso di sopravvivere al declino cui era destinato, e allora era una festa, noi – gli inutili – provvedevamo al sostentamento della famiglia. Ma quel giorno, niente pomodori. Mio zio camminava immerso nella concentrata distrazione tipica di lui, come se non fossimo indirizzati ad alcun approdo, ma la sua mano era impaziente, lo percepivo dal sudore che la rendeva caldissima. Voleva certamente andare dalla sua “fidanzata”: chiamava così una ragazza giovane, gonna sotto al ginocchio e mocassini lucidi, che incontravamo spesso passando davanti a una delle case che resisteva ostinatamente al fuggi fuggi generale. Non ho mai visto le facce dei suoi genitori, non ricordo nemmeno se ho mai saputo il suo nome, ma lei la ricordo bene: ferma immobile, piantata in quel giardino un po’ spelacchiato – pronta a diventare arbusto, cespuglio, qualsiasi cosa ma non fiore, non era adatta – mentre allenava le gambe a resistere al freddo feroce dell’inverno e alla neve rifiutando le calze. Se vuoi essere sempreverde devi soffrire. Non si erano mai parlati né si salutavano, però si guardavano molto ogni volta che ciondolavamo da quelle parti: ci fermavamo al cancello, lui toglieva la sua mano dalla mia e si fissavano per minuti lunghissimi. Sembrava uno di quei western che vedevo in tv, in cui i pistoleri passavano ore tra la polvere a scrutarsi prima di premere, finalmente, il grilletto e morire. CulturaSopravvivere a Piacenza, la città dove il tempo scorre in modo stranoChiara Tagliaferri I mocassini Anche quel giorno lei era in giardino, ma i suoi mocassini di vernice ondeggiavano appesi all’abete più alto. C’era ancora la scala appoggiata all’albero, e quel suo lento oscillare mi faceva venire voglia di andare verso di lei: se mi mettevo sulle punte sarei riuscita a sfilarle le scarpe, tanto non le servivano più. Avrei aggiunto del cotone per farmele andare bene, ma tutti mi avrebbero guardato i piedi finalmente calzati nel lusso. Mio zio non so come aveva intuito le mie intenzioni, così mi ha afferrato come un gatto per la collottola spingendomi sulla strada, dicendomi di andare a chiamare tutti. È stata la prima e unica volta che ha avuto una reazione dura con me, dunque ho seguito le sue istruzioni, ma quando sono entrata in casa ho ricevuto da mio padre uno schiaffone perché avevo disobbedito al suo ordine di stare alla larga. Quando ho parlato, però, ho visto i suoi occhi diventare acquosi, mi ha carezzato veloce lì dove prima mi aveva colpito ed è corso con tutti gli altri dallo zio, lasciandomi sola davanti alla bara aperta. Quella volta ho capito che è preferibile concentrarsi sui particolari quando l’insieme non ti piace, e che la morte è meglio osservarla partendo da dei mocassini. Mi è spiaciuto per la fidanzata di mio zio, così dopo l’episodio dell’abete gli ho proposto molte volte di entrare in quella casa che è diventata come tutte le altre, abbandonata, ma lui non mi ha mai dato retta. Poi me ne sono dimenticata, anche perché nei mesi successivi ho ricevuto molti regali e infinite attenzioni: ero diventata importante, venivo auscultata con timore e sentivo che, per qualche strano motivo, avevano paura di me. Eppure stavo benissimo, nessun brutto sogno e delle scarpette di vernice nuove. CulturaSi passano molte cose dal sangueChiara Tagliaferri I sogni Il mio superpotere è diventato conclamato quattro anni dopo, con il secondo impiccato: Cristian, il proprietario del negozietto d’alimentari dove ci fermavamo con mio padre a comprare la focaccia quando il sabato mi veniva a prendere da scuola in bicicletta. Era un signore gentile e sempre allegro, alle 12,30 sul bancone c’era già la focaccia pronta nella carta oleata, il mio premio per i voti della settimana che erano sempre buoni: facevo il mio dovere, io. Quel sabato ero saltata dal sellino posteriore della bicicletta deglutendo, mi pregustavo già la sensazione dell’olio che ti ammorbidisce gli angoli della bocca e ti regala l’effetto del lucidalabbra più buono del mondo quando, entrata nell’alimentari deserto, ho trovato Cristian appeso alle travi del soffitto, tra i prosciutti. Non dondolava. Sul banco c’era il cartoccio con scritto il mio nome. L’ho preso e sono tornata da mio padre che mi ha insensatamente coperto gli occhi quando gli ho detto di Cristian tra i prosciutti. Ha fatto cadere la bicicletta e si è scapicollato dentro mentre io aspettavo fuori, mangiando la focaccia. Nel palazzo ormai ero una celebrità: ogni sogno veniva passato al vetrino da mia madre («sforzati di ricordare, la zia ti è venuta a trovare nella notte? Sei certa che non ti abbia dato qualche numero?»), e i vicini avevano timore di trovarsi in ascensore soli con me, ma se capitava mi chiedevano cosa vedevo, pronti a credere a qualsiasi presenza ectoplasmatica in quel micromondo trainato da cavi. E io, in effetti, vedevo: le mie notti gorgogliavano un viavai di cari estinti pieni di messaggi, spesso si trattava di frasi grondanti banalità amorose, più raramente invettive e piccole maledizioni (le mie preferite), ogni tanto qualche avvertimento (non mettersi in viaggio, fare attenzione all’acqua, mandare a monte un matrimonio). Sono dunque cresciuta parlando più con i morti che con i vivi, e quel tagadà ultradimensionale mi faceva ballare sicura, viaggiavo con una scorta di protezione in più perché sapevo sempre cosa fare e come intervenire per scongiurare sventure. Poi, a un certo punto, è arrivato il silenzio. I miei sogni si prendevano gioco di me: di notte incontravo formiche, scivolavo sul ghiaccio coi pattini, raccoglievo finocchi, ma cosa ti potrà mai dire un finocchio? Non sentivo più la morte, stavo crescendo e lo facevo nel momento sbagliato, perché intorno tutto esplodeva. Prima è toccato a lontani zii di cui ignoravo anche il nome, cadevano come birilli (erano forse le formiche?), poi qualche nonno di cui avrei preferito scordare il nome (il ghiaccio su cui scivolavo, finalmente libera), infine mio padre (il mistero del finocchio), e non uno straccio di defunto che si prendesse il disturbo di avvisarmi, di dirmi quantomeno che gli dispiaceva. CulturaL’ortaggio: un problema pratico da risolvere Barbie Così negli anni ci siamo assottigliate fino a rimanere in quattro: mia madre, mia sorella, io e Barbara, una lontana cugina cattiva come la peste che preferisce farsi chiamare Barbie. L’essere diventata orfana non l’ha migliorata nel carattere: brutta dentro e bella fuori, è in effetti una specie di Barbie in miniatura, vaporosa e incapace d’amore anche se tappezza il suo corpo con catenine e bracciali tempestati di diamanti a formare la scritta “I love you”. È un’ossessione la sua: vomita tutti questi “ti amo” catarifrangenti a un mondo che in realtà disprezza, noi comprese. Mia mamma – che non ho mai sentito pronunciare parole d’amore, ma che lo sa provare davvero – le ha sempre voluto insensatamente bene: è fatta così, disarma la cattiveria degli altri con la comprensione, giustificando qualsiasi nefandezza. Forse c’entra il suo nome: battezzata come la santa a cui hanno cavato gli occhi, ma che sempre sorride con le sue orbite impiattate nelle immagini sacre, anche mia madre è pronta a farsi strappare mammelle, fegato o cuore, e perdonare. Io, no. Barbie mi ha derubata: alla mia cresima, una zia le ha chiesto di comprarmi un regalo consegnandole certamente una somma ragguardevole. Lei si è intascata il malloppo impacchettando alla bell’e meglio un paio di suoi orecchini usati, nemmeno d’oro scoprirò, e me li ha rifilati gettandomi la scatolina tra le mani con la stessa indolenza con cui lanciava l’osso al suo cocker. Io ho fatto più feste del cocker genuflettendomi al cospetto della zia, fino a quando mia sorella – che è un metal detector vivente, la sua bile s’accende e suona davanti ai gioielli sfoggiati da Barbie – mi ha sibilato: «Ti devo parlare». A casa mi ha fornito le prove della sua indignazione: abbiamo ritrovato quegli orecchini in una foto, erano il Fantasma del Natale Passato e scintillavano sulle orecchie di mia cugina. Non le abbiamo mai detto nulla, mia madre non voleva creare conflitti. Siamo andate da un orafo che ci ha guardate come tre pezzenti: gli avevamo portato una volgare placcatura. «Non valgono niente», ci ha detto, e siamo uscite capendo che anche noi non valevamo niente. Da allora non ho più avuto pietà per Barbie, anche perché per un bel po’ le è andato tutto bene: un matrimonio con un ragazzo diventato in breve tempo ricco per esaudire i suoi desideri (mia madre la ricorda in cucina, poco prima delle nozze. Le chiede se ha idee sull’abito da sposa e lei risponde secca: «Voglio far crepare d’invidia tutti»), le vacanze a Forte dei Marmi che lei chiama solo “il Forte”, a rimarcare una familiarità con la ricchezza, e la villa più bella di Piacenza, nuovissima, con i pavimenti riscaldati. Io e mia sorella, nel frattempo, abbiamo sgranato le estati raggiungendo a nuoto la boa dei bagni Helios, a Pietra Ligure, diventando noi i soli dello stabilimento: la pelle color miele e gli occhi azzurri, altissime rispetto a Barbie, persino più belle anche senza un soldo. Va però detto che i soldi sono molto utili se preferisci non lavorare mai, e Barbie ha scelto questa opzione per coltivare a tempo pieno il bovarismo di provincia: prima è diventata bravissima a spendere il denaro del marito, poi ha iniziato a tradirlo perché sente di meritare di più. Gli amanti che pesca sono ricchi e cafoni, la portano nelle strade di campagna dove sono cresciuti («è tutto mio qui intorno, senti che buono l’odore della merda che ingrassa le mie terre»), e la macchina diventa un’alcova sbrigativa in cui svolgere la pratica. Ma lei s’innamora tutte le volte e si sfoga con mia madre: perché è così sfortunata? Certo, le macchine sono molto grandi e anche confortevoli, ma è stanca di quegli amori stropicciati. E mia madre rinuncia a ogni logica, annienta il rigore con cui ha cresciuto me e mia sorella e la consola con l’unica parola che la calma: «Poverina». Spiriti guida Intanto Barbie va da una maga che le assegna degli spiriti guida: si chiamano Nilde e Giovanni, saranno loro a prendersi cura di lei e ad aiutarla con il suo cow-boy preferito, quello col Cherokee. Ma più lei stringe la morsa, più lui sparisce. Barbie sublima l’assenza comprando lo stesso cane del mandriano, tanto il cocker è morto: sono gli unici a Piacenza ad avere un bulldog francese. Che brutto, penso io quando la vedo con Maverick, l’ha chiamato come Tom Cruise in Top Gun, l’arroganza li lega anche se Tom era molto carino. Ora è il marito a chiedere udienza a mia madre: le racconta di cene silenziose e tavole apparecchiate per quattro: ogni sera Barbie prepara anche per Nilde e Giovanni. La notte poi, diventa sentinella, se fa freddo indossa il piumino e va sul balcone perché gli spiriti gliel’hanno promesso: se vedrà due macchine rosse consecutive ogni suo desiderio si esaudirà. Le macchine rosse non passano: Piacenza dorme di giorno, figuriamoci di notte, ma lei non si sconforta e aspetta fino all’alba. Mia madre sa che il desiderio di Barbie odora di merda e bulldog francese, ma non lo dice al marito e si dispiace moltissimo. Nilde e Giovanni pretendono sempre più da mia cugina, ma lei non vacilla e accondiscende a ogni richiesta, compresi i regali alla maga. In breve, il conto in banca viene prosciugato, l’eredità dei genitori spazzolata e il marito dimentica di tornare a casa nei weekend, l’azienda per cui lavora l’ha trasferito a Palermo e lì sta bene. A Barbie non importa, preferisce non averlo tra i piedi e sfilare sul Corso con Maverick: che tutti guardino il cane e uniscano i puntini che la collegano all’amante perduto. Ma quando a Barbie arriva la richiesta di divorzio, dà di matto. Da qui diventa tutto velocissimo, e io che vivo da molti anni in un’altra città aspetto la sera, quando il telefono mi porta gli aggiornamenti della nostra soap opera. I colpi di scena si susseguono sincopati: lei che tenta d’investirlo con la macchina, lui che ottiene un Tso coatto, e mia madre e mia sorella – le reiette improvvisamente promosse a indispensabili – che sono le uniche a ricordarsi di Barbie. La vanno a trovare in clinica psichiatrica e le portano le merendine, delle ciabatte (ha chiesto le havaianas nere, indossa solo quelle quando vuole stare comoda), qualche rivista di moda. Mia sorella, che odia i cani, si occupa anche di Maverick, e Barbie adesso le chiama “la mia famiglia”. Io non le credo nemmeno per un attimo, però un po’ mi preoccupo: sono certa voglia sostituirsi a me, farmi fuori. Barbie è diventata generosa con mia sorella, le regala la collanina “ti amo” e le dice «non ci servono gli uomini, siamo come Thelma e Louise», poi le giura che appena esce distruggerà il marito e andranno a festeggiare bevendo champagne su una decappottabile. Il ritorno Io, messa al confino dalla mia stessa famiglia (hanno molto da fare, ora, con Barbie), una notte sogno i miei, di spiriti guida: la ragazza con i mocassini e Cristian il salumiere sono finalmente tornati. Non pensavo a loro da secoli, eppure eccoli lì, ci divide solo un vetro e sono così contenta di ritrovarli: mi riporteranno i miei superpoteri. Loro però non sembrano felici di vedermi, hanno l’aria preoccupata e mi parlano, ma non riesco a capire cosa dicono, il vetro è spesso e opaco. Maledico di non saper leggere i labiali, li vedo spalancare la bocca e certamente adesso stanno gridando, ma non sento comunque niente. Penso che mi vogliano mettere in guardia da Barbie: forse sono io quella da investire, ora. Tornano a trovarmi spesso, e in ogni sogno hanno sempre quell’espressione triste. Lo racconto a mia madre che si mette a ridere e mi dice che la collanina è proprio bella, brilla tanto sul collo di mia sorella. Intanto gioco a ripetizione i numeri al lotto: 39 (la corda al collo), 88 (il vetro opaco, che significa anche “infatuazione di breve durata”, lo dicevo io che Barbie non resisterà nella mia famiglia), 51 (la tristezza). Punto parecchi soldi ogni volta, vincerò e comprerò una collana a mia sorella con un “ti amo” gigante come la scritta “Hollywood” sul monte Lee, ma non esce mai niente., CulturaL’unica inquilina vivaGinevra Lamberti Ricordi buoni Poi, una mattina di inizio dicembre, mia sorella mi chiama, ed è strano perché ci sentiamo sempre di sera. Vorrà mettersi d’accordo per il mio ritorno a Natale, assicurarsi che non pianterò grane sulla tavola con la tovaglia bianca apparecchiata per sei: noi quattro più le sedie vuote di Nilde e Giovanni, i loro piatti con gli anolini fumanti che finiranno nell’immondizia a fine pasto. Faccio appena in tempo a immaginare il mio collo trafitto dall’agrifoglio al posto dei diamanti, che lei mi dice: «Un vicino ha sentito il rumore, poi ha raccontato che è stata cosciente fino all’arrivo dell’ambulanza, ma è morta prima di arrivare in ospedale. Indossava il piumino, forse sono stati Nilde e Giovanni a dirle di buttarsi, magari è passata una macchina rossa. Ma se una si vuole ammazzare, perché mette il piumino? Hanno ritrovato le havaianas nere, quelle che le abbiamo preso noi, nel giardino dove è caduta». Mentre lei parla io penso: «C’è da qualche parte un ricordo buono di lei? No», poi però penso anche che avrà avuto i piedi freddi prima di buttarsi, e mi dispiace. Tre piani non sono niente, precipitare è un attimo, magari non si è accorta di nulla, mi dico. Ma so che non è vero, e so anche che la ragazza con i mocassini e Cristian erano tornati per lei. Potevo salvarla, ma ero troppo arrabbiata. C’è da qualche parte un ricordo buono di me? Non credo. CulturaDare la parola ai morti e parlare loro. Che rispondano, non è necessarioGinevra Lamberti© Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediChiara Tagliaferri È coordinatrice editoriale per Storielibere.fm ed è autrice, con Michela Murgia, del podcast Morgana, la casa delle donne fuori dagli schemi e, con Melissa P., del podcast Love stories. Ha lavorato come autrice di trasmissioni radiofoniche per Rai Radio2. Ha collaborato alla prima edizione del Festival L’Eredità delle donne diretto da Serena Dandini.
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