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Finlandia, stop alla carne ai ricevimenti a Helsinki per ridurre le emissioni

Amanda Knox mamma di Eureka Muse: gravidanza segreta per timore dei paparazziTommaso Giartosio spiega come la formazione del proprio vocabolario dica tanto anche di sé. La mente corre a Lessico famigliare di Natalia Ginzburg,Capo Stratega di BlackRock Guglielmo Campanella uno dei libri canonici del nostro ’900La letteratura può raccontare una vita? Quali strumenti può adoperare per farlo? Sono domande che innervano la storia della letteratura da secoli e che hanno trovato varie, provvisorie, risposte: per esempio Petrarca con il Canzoniere tenta di destrutturare sonetti e canzoni per esprimere la propria condizione psicologica, Goldoni scrive le sue lunghe Memorie dall'esilio volontario in Francia ricostruendo l'intera sua vita alla luce del teatro, Foscolo differisce la sua autobiografia attraverso il celebre alter-ego di Jacopo Ortis.Si tratta solo di un campionario minimo in grado però di testimoniare la tensione che unisce letteratura e racconto di sé, un binomio destinato a esplodere e percorrere strade nuove nel Novecento, quando l'identità umana è messa in crisi e il racconto di sé non può che essere frammentario, una condizione espressa bene dalla formula profetica di Rimbaud «Je est un autre» (e d'altronde, come ha scritto lo psicoanalista Jacques Lacan, «i poeti, che non sanno ciò che dicono, è ben noto tuttavia dicono sempre le cose prima degli altri»).Se dunque la formula di Rimbaud è emblema della difficoltà ineludibile di raccontare un Io mosso da forze che lo stesso soggetto non riesce a conoscere, si moltiplicano allora le forme attraverso cui provare a catturare quell'Io, ingabbiare questa materia sfuggente, raccontare, appunto, la propria vita attraverso la letteratura. Uno dei modi, forse più complessi, certamente più affascinanti, per farlo è quello di costruire una narrazione che si concentri sulla crescita e sullo sviluppo della propria lingua, una materia che prende forma nell'intimità dell'individuo ma si nutre anche di tutto ciò che lo circonda, in primis la rete di relazioni famigliari, l'incidenza nella memoria di alcune delle cose che accadono nel passato e la presenza di vocaboli che si legano in maniera decisa a certi momenti o a certe persone. CulturaRaccontare la malattia con gli occhi della curaLorenza PieriUn atlante del linguaggioTommaso Giartosio con Autobiogrammatica (minimum fax), entrato in dozzina allo Strega, ha deciso di percorrere questa strada impervia, convinto, come emerge dal libro, che provando a raccontare la formazione della propria lingua si possa raccontare anche la propria vita, che il racconto di sé passi obbligatoriamente dal racconto di come si siano formati i materiali e gli strumenti che rendono questo processo di scrittura possibile in questa forma. Da questo punto di vista in effetti Autobiogrammatica («disegnare un atlante del linguaggio di un singolo individuo: cioè del suo modo di sentire e vivere la lingua» la definisce l'autore) è una sorta di autobiografia linguistica perché se è vero che Giartosio narra alcuni eventi che hanno a che fare con i membri della sua famiglia e con i luoghi da loro frequentati (la lingua del padre, segnata da un'ufficialità che rispecchiava il suo mestiere e il suo ruolo nella famiglia, la lingua della madre che si concretizza nelle formule lessicali che ruotano attorno al cibo, parole che, scrive Giartosio, «più spesso mi tornano alla bocca, non posso risputarle, non riesco a disarmarle, non voglio disamarle», la tensione che abita i vari capitoli del libro è segnata dal tentativo di restituire sulla pagina gli svolazzi inafferrabili della lingua nella sua sedimentazione e costruzione, una lingua intesa come «sistema contraddittorio ma non insensato, marchingegno che per ora funziona, carrozzone che va». CulturaFrancoforte by night: verso la Buchmesse (senza sonniferi)Anna Giurickovic DatoLa lezione di Natalia GinzburgAnche per questo, pur inserendosi nell'affollato e saturo alveo della narrazioni autobiografiche famigliari, Giartosio offre una via nuova a questo racconto di sé, che da un lato si ricollega a grandi e magistrali narrazioni linguistico-autobiografiche del passato, dall'altro ne assembla la forma classica con elementi contemporanei.La mente corre chiaramente a uno dei libri “canonici” del Novecento italiano, Lessico famigliare di Natalia Ginzburg (tra l'altro Premio Strega nel 1963), a cui Autobiogrammatica si avvicina per l'idea che si possa raccontare una storia famigliare attraverso la sua lingua privata («intuizione elementare e penetrante come una spilla da balia»), un'opera che riesce nel miracolo di rendere universale il gergo privato della famiglia Levi composto da neologismi, slittamenti di significato o parole inventate.Giartosio sembra fare sua questa possibilità di lavoro sul linguaggio, ma nello stesso tempo sceglie di percorrere una strada parallela che si fonda su un gioco tra lo scrittore e il lettore, con il primo che innerva la sua narrazione di un universo estremamente personale e il secondo che, a patto di muoversi sulla stessa frequenza, insegue il senso universale di questa lingua che, nel suo affastellarsi continuo tra un capitolo e l'altro, e quindi dentro la formazione del protagonista, i suoi amori, le sue amicizie, i suoi rapporti famigliari e quant'altro, offre pian piano un mosaico in grado di palesare un ritratto così intimo da far credere ancora nelle possibilità rivelatorie della letteratura. La lingua dell’infanziaIl racconto di Autobiogrammatica procede rigoroso e preciso, si presta a una commistione omogenea con elementi che ne arricchiscono il volume (da piccoli disegni a pagine di diario, parole che si muovono in maniera quasi calligrammatica o piccole immagini) e presenta al lettore questioni che oltrepassano il racconto strettamente autobiografico, con riflessioni sulla scoperta della morte e della mancanza («la più acuta e la più vuota delle esperienze sensoriali – quando tendi le falangi e sull’apice dei polpastrelli quell’altra mano, quel corpo, c’è solo nel suo non esserci»), sulle forme e le parole dell'infanzia («Cos’è la lingua dell’infanzia? Del tempo dell’in-fari, del non parlare? È lalingua, lallingua, lallallingua. La-lin-gua. Lattea, liquida, slittante, slinguante. Lallazione e salivazione. Balbettio e bava. Parola e palato. Detti e denti») oppure sul linguaggio animale («Quante volte mi ha incantato il fatto che la voce degli animali e quella dei poeti, entrambe fatte di suono ben prima che di significato, siano dette versi!»). CulturaLa longevità è un’utopia: il tempo breve delle scrittrici condannate a nascondersiGiulia CaminitoscrittricePian piano Autobiogrammatica diventa una riflessione sulla consistenza fisica della scrittura e su come la lingua si sedimenti creando un percorso personale di accesso al mondo ponendosi così, all'interno del panorama letterario contemporaneo, come suggestiva e nuova via al racconto di sé.© Riproduzione riservataPer continuare a leggere questo articoloAbbonatiSei già abbonato?AccediMatteo MocaitalianistaÈ dottore di ricerca in Italianistica all’Université Paris Nanterre e all’Università di Bologna. È insegnante e cultore della materia per l’insegnamento di Letterature Comparate presso l’Università di Bologna. Ha pubblicato la monografia Tra parola e silenzio. Landolfi, Perec, Beckett (La scuola di Pitagora, 2017). Ha dedicato saggi all’opera di Landolfi e si occupa, tra gli altri, di Elsa Morante, Anna Maria Ortese e Georges Perec. Scrive di letteratura su quotidiani e riviste

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